Il BOOM dell’Irish Whiskey

Lo leggiamo ovunque da ormai qualche anno. Dopo i giapponesi e il rye, sarà l’Irish il futuro del whiskey nel mondo. Però, come ogni ritornello è interessante capire se dietro c’è polpa. Ovvero dei numeri che ci dicano che sì, davvero l’Irish whiskey è in fase di boom.

Il primo dato interessante arriva dal Distilled Spirits Council, che dagli anni Duemila ha registrato una crescita delle vendite negli Stati Uniti di +900%. Con la loro quota del 70% dell’export, gli Usa sono di gran lunga il primo mercato per gli Irish (il secondo, la Russia, ha numeri di 10 volte inferiori) e le scelte fiscali di Trump possono confermare la tendenza: i dazi sui beni europei di lusso hanno infatti colpito lo Scotch, ma non il whisky da Irlanda e Inghilterra. Meno “lussuoso”, ma in questo caso ben venga la sottovalutazione…

Parallelamente, l’altro fenomeno interessante è l’incredibile moltiplicazione di investimenti in distillerie in corso sull’isola, che coinvolge anche personaggi come Bono degli U2 e il kick-boxer Conor McGregor. Il report “Irish whiskey 2010-2020”, pubblicato dalla Irish Whiskey Association è chiaro: nel decennio scorso sono stati investiti 1,55 miliardi di euro in ristrutturazioni, nuovi impianti e ogni genere di miglioramento della filiera. Il risultato in termini di vendite? Mostruoso. Nel 2010 si vendevano 60 milioni di bottiglie, nel 2020 (prima della pandemia) ben 144 milioni. Il che ha un’evidente conseguenza economica: 890 milioni di euro di esportazioni e quasi duemila posti di lavoro. Risultato: l’Irish whiskey è lo spirito che ha visto la crescita più veloce nell’ultimo decennio.

Tale mole di investimenti ha generato un impressionante fiorire di distillerie. Dalle sole 4 nel 2010, oggi il computo è di ben 38. Mai negli ultimi 120 anni erano state così tante fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Accanto ai “colossi” come Midleton, Cooley e Bushmills, sono nate decine di altre realtà, spesso artigianali e a conduzione familiare, che hanno ridato linfa ad aree rurali e a centri cittadini un po’ in crisi e riportato gli alambicchi a funzionare anche a Dublino. Distillerie che producono meno di 5mila casse all’anno e che ancora non hanno venduto il loro liquido, che pazientemente matura in attesa di compiere almeno tre anni. Distillerie che ad ogni modo mettono le basi per un’esplosione del turismo di distilleria che per il momento solo il Covid ha bloccato.

A dire il vero, bisogna dire che le basi da cui si partiva erano molto traballanti e le vendite molto basse. Questo rinascimento di sicuro non è un ritorno ai fasti del passato (a metà Ottocento l’Irish whiskey rappresentava il 60% degli spiriti invecchiati prodotti al mondo), ma un buon inizio. Trainato ovviamente dall’exploit di Jameson, diventato un marchio globale un po’ come Jack Daniel’s. Di certo manca ancora molto da fare, come ad esempio sfondare nei mercati emergenti come l’Asia, dove i cugini ricchi dello Scotch la fanno sempre più da padroni. Quello che però è considerato da tutti il segnale più entusiasmante è la curiosità globale. L’Irish whiskey interessa, crea “hype”. Comunicazione giovane, idee rivoluzionarie come il focus sul terroir di Waterford, profili organolettici molto diversi fra loro, dai bleneded più versatili ai single pot still più profondi: se son rose fioriranno, intanto l’Irlanda del whiskey è il giardino più affascinante nel panorama dei distillati.

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