Concludiamo il terzetto di Talisker con i controcazzi che ci ha portato Ansalone dal Bengodi dove scorrono birra e grasso di porco liquefatto. Dopo il 44 anni e il 25 anni, tocca al 18 anni, che noi abbiamo già recensito quando ancora portavamo i calzoni corti. Li portiamo ancora, ma la differenza è che adesso abbiamo gli stinchi glabri e facciamo ribrezzo anche alle genti anche di stomaco forte.
Il Talisker 18 è un po’ la Jenna Jameson dello Scotch per la nostra generazione di appassionati (di whisky, cosa avete capito?): un’istituzione che nessuna ruga e nessuna modernità potrà scalfire. Invecchiato in un mix di botti di rovere europeo ed americano, vediamo se è ancora emozionante come una volta. Il colore è ambrato chiaro.

N: poco fumo, come disse quel nostro amico a cui ritirarono la patente per guida sotto effetto di cannabis. Scherzi a parte, la torba non è protagonista. Piuttosto, c’è una inconsueta potenza aromatica e super-fruttatona: arancia rossa, parecchia gelée di fragola e bacche imprecise, dal pepe rosa al ginepro. Olii essenziali anche. Qualcuno approfittando dell’inebriante naso profumato parla di “tea tree oil”. Che, come ci spiega il signor Google, è l’olio di melaleuca che si spalma sui brufoli. L’oleosità è un tratto distintivo anche al naso, con ambra e argan. Un olfatto quasi cosmetico, insolitamente delicato. Mandorle salate, e un accenno di patatine ai gamberi, a ricordare il mare ma non in maniera diretta.
P: Jenna, non farai anche tu come Claudia Kohl, hai forse intenzione di tradirci? L’attacco è così così in termini di intensità. C’è una godibilissima ondata di succo di frutta (pesca e albicocca, il classicone delle elementari), ma l’impatto è davvero attutito. Nel secondo palato finalmente la torba (cenerosa) si avverte di più, mescolata a fiori di sambuco. Arancia rossa ancora, un po’ caramellata come sherry vuole. Insomma, di nuovo una preponderanza del lato fruttato e aromatico. Solo nel retrogusto si distingue il dna isolano, con pino marittimo e ginestra costiera, olive in salamoia e pepe.
F: si rialza in volo nel cielo della qualità. Miele affumicato, limonata dolce, caramello salato, falò spento. Potremmo inventare altre combinazioni sostantivo-aggettivo, ma ci limitiamo a un’ultima: chiusura buona.
Un po’ altalenante nel generare entusiasmo. Il naso è inaspettatamente aromatico (ma non troppo, anche nella release precedente avevamo notato la stessa cosa) ma invitantissimo. Il palato invece perde qualche punticino per una generale debolezza di intenti: è come quando ti svegli un po’ svogliato la mattina. Il finale invece è come quando realizzi che anche questa giornata devi portarla a casa, e dunque tanto vale dare il massimo. Dietro a questa volubilità, però, ci sono un’equilibrio e una solidità aurei, da prendere a modello per qualsiasi torbato educato. E questa è una qualità che merita comunque un voto non sotto l’88/100. Lo si trova qui.
Sottofondo musicale consigliato: Bloodhound Gang- The ballad of Chasey Lane (che non è Jenna Jameson, ma insomma è un altro monumento: non è che uno si mette a fare le classifiche fra il duomo di Milano e quello di Firenze no?)