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Rosebank 30 yo (2020, OB, 48,6%)

rosebank-30-review

Rullino i tamburi e suonino le trombe, il gigante addormentato si è svegliato. Rosebank, la distilleria feticcio delle Lowlands chiusa nel 1993 in pieno “whisky loch”, è tornata. Acquistata nel 2017 dalla famiglia Russell del gruppo Ian Macleod, che ha rilevato da Diageo marchio, stock di barili e le rovine della distilleria, l’impianto di Camelon è da tre anni in fase di restauro. Anzi, a dare un’occhiata alle foto d’epoca e ai rendering, forse sarebbe meglio dire che è in fase di ricostruzione totale.

Ma mentre attendiamo che venga riempito il primo barile della nuova produzione (intorno a settembre 2022, e sarà un refill, per la precisione), lo scorso ottobre Rosebank ha però lanciato la prima edizione annuale del nuovo corso: un 30 anni distillato nel 1990 e maturato per il 62% in refill sherry butt e per il 38% in refill bourbon hogshead. Ne sono state tirate 4.350 bottiglie e una di queste, grazie a Rossi&Rossi che lo importa in Italia, è stata aperta durante una degustazione online con i ragazzi del Milano Whisky Festival.

Gordon Dundas, brand ambassador di Ian Macleod distillers, ha soddisfatto la vorace curiosità della folla e svelato parecchi particolari, che i vostri cronisti si sono appuntati e vi elencheranno in ordine sparso: lo stock di vecchie botti racchiude liquido distillato dal 1989 al 1993; ogni anno fino al lancio del primo whisky distillato nel nuovo impianto (probabilmente 2030) verrà rilasciata un’espressione proveniente da quello stock; gli alambicchi, smantellati dai ladri di rame, sono stati ricostruiti secondo i disegni originali dalla stessa impresa; lo stile replicherà quello tradizionale, cioè un mix di leggerezza data dalla tripla distillazione e di robustezza data dai worm tubs; nella nuova distilleria, oltre agli idilliaci cespuglietti di rose sulle sponde del Forth and Clyde canal che danno il nome al marchio, ci sarà un visitor centre ma non un malting floor; la produzione sarà circa di 600mila litri l’anno.
Fine del preambolo informativo, si assaggi, perdindirindina!

N: un attimo di commozione, che non capita tutti i giorni un naso così. Vibrante e delicato insieme, si apre su una frutta croccante e fresca che ci fa venire in mente la carambola, i litchees, il cedro e tanta pesca bianca. La frutta va a braccetto con una dimensione verde di spettacolare vivacità, che alterna suggestioni di erba tagliata, tiglio e forse salvia. In questa freschezza gentile – che a uno di noi in piena vena poetica da fanciullino ricorda le lenzuola lavate stese ad asciugare – ecco l’anima floreale delle Lowlands: fiori bianchi e l’acqua di rose di certa pasticceria mediorientale. A proposito, a dare ulteriore complessità, bisogna aggiungere altri mondi. Per esempio un senso di frutti rossi (le botti di sherry, anche se per nulla invadenti), come di fragoline di bosco e quelle gelatine di melograno turche o israeliane. Ma anche una cremosità in levare che ci fa gridare al caro, vecchio pane-burro-e-zucchero, la nostra merenda da campioni. In fondo, come all’orizzonte, ecco un’idea di legno e noci. Miracoloso.

P: l’attacco è insospettabilmente piccantino e un filo alcolico, guidato dal legno della botte. Un kick di spezie (zenzero), inizialmente riempie il palato. Ma è davvero un attimo, perché poi si rientra nella pienezza gentile ed elegante sperimentata al naso. Ancora la frutta bianca (pera e pesca), a cui si aggiunge del pompelmo maturo. Da qui prende la via dell’amalgama sontuosa che solo il tempo può dare: cremoso (“crema al pepe rosa”, bisbiglia uno squilibrato che evidentemente se ne vergogna, anche se forse ha ragione), masticabile, con una dolcezza di confetto alla mandorla, meringa e vaniglia. L’aspetto che più colpisce è la tensione. A trent’anni, è un palato ancora scattante, non ancora bolso come spesso succede. E mentre ci godiamo la sensazione burrosa, ecco emergere quello che riconosciamo come il marchio di Rosebank: un senso oleoso e vegetale tra l’olio d’oliva e la mandorla, abbastanza amarino da bilanciare la dolcezza.

F: non infinito, ma piuttosto lungo, pulito e giocato tra una dolcezza di mou alla vaniglia (qui sì data dal barile) e quel tocco amarognolo di albedo di agrume.

Inutile girarci intorno, questo è un whisky di rara eleganza e raro carattere, dove l’identità del distillato riesce a imporsi sul tempo e sul legno. Impressionante la vivacità di tutte quelle note fresche, fruttate ed erbacee che di solito vengono messe in soffitta dai sentori secondari. Qui invece rimangono protagoniste assolute e regalano un naso da urlo. Se proprio dobbiamo trovare un neo, l’attacco del palato è la parte che ci ha convinto meno e in generale in bocca – seppur eccellente e raffinato – ci è sembrato mancante di un guizzo di complessità extra. Siamo nel paradiso dei 91/100, dove l’eleganza fa rima con sostanza.

Sottofondo musicale consigliato: Nick Cave & The Bad seeds feat Kylie Minogue – Where the wild roses grow

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