Qui continuiamo a sentire notizie di uragani, tornado, cicloni e trombe d’aria e quindi dovevamo fare qualcosa. O prendere una laurea in meteorologia, o tornare a recensire l’unico whisky dedicato a un vortice. Nella fattispecie, l’Ardbeg Corryvreckan, un NAS a grado pieno che fa parte del core range e che non recensiamo da quasi dieci anni. Siccome ormai siete grandi e sapete tutto di Ardbeg, di Islay e dello Scotch in generale, ma siccome noi non riusciamo a smettere di essere zelanti professorini, stavolta teniamo una conferenza di geografia e antropologia culturale.
Il whisky prende il nome da un gorgo – il terzo più grande al mondo – che si trova nell’omonimo stretto di mare tra l’isola di Jura e quella di Scarba. La combinazione delle correnti atlantiche, della marea e di un fondo marino particolarissimo, con una fossa e un pinnacolo piramidale di basalto, crea questo effetto che rende il canale non navigabile in parecchi periodi dell’anno. Ovviamente siamo in Scozia e dunque il folclore vien da sé: Corryvreckan proviene dal gaelico Coire Bhreacain che significa “il calderone della coperta”. Si narra infatti che Cailleach Bheur, strega e dea dell’inverno, utilizzasse lo stretto come un lavatoio per sciacquare il suo plaid a fine autunno. Ci impiegava ere giorni, e quando lo ritirava, era candido e pulito, come il velo di neve che calava sulle isole a simboleggiare l’inizio dell’inverno. Ne dovevano bere tanto, di whisky, per avere questa fantasia, eh…
Ad ogni modo, siamo curiosi di vedere se è cambiato in 9 anni. Il mix di botti è identico: ex bourbon e new French oak. Il colore è ambrato chiaro.

N: un po’ trattenuto, decisamente più quieto delle acque del gorgo omonimo. Le note che emergono sono quelle di un’albicocca secca incenerita. Messa così suona male: diciamo un’albicocca secca con un velo di cenere e una nuvoletta di fumo attorno. Torba fredda, spiaggia gelida, sa di inverno, con i fuochi accesi sulla riva del mare e nelle case. Ostrica, anche, con tutto l’ambaradan di alghe e limoni del plateau. C’è una nota verde croccante che sembra sedano, ma non è così erbacea: carambola, diremmo. In più, un lieve profumo di gelsomino. Con l’acqua, si fa più vanigliato, pandoro con lo zucchero a velo e perfino un poco di tabacco.
P: potente, l’alcol si fa sentire, due schiaffi li molla volentieri. Anche il legno qui non è timido, d’altronde la parte di botti nuove è lì per quello. Tutto è avvolto da un senso di bruciatura, carbonella, carta che arde nel vento. Che poesia. In realtà a essere sinceri è molto prosaico, nel senso che è diretto, schietto, aspro. Ci sono vaniglia e biscotti alle mele, ma anche limone, uva spina e pesce affumicato. Giovane e non del tutto amichevole. Con una piccola diluizione invece migliora molto in termini di bevibilità, spunta anche un guizzo di cola.
F: legnosetto, sale (il sale della Camargue!), cenere. Pandoro farcito di sigarette spente. Olè.
Qui l’aggiunta di qualche goccia d’acqua è davvero determinante. Si passa dal “mah, non so se lo berrei volentieri” al “versiamone subito un altro”. Anche dieci anni fa avevamo notato la stessa propensione a migliorare nettamente con una certa diluizione, nonché la stessa fumantina esuberanza nell’impatto del legno. Cambia però il voto, perché diamo un punticino in meno: 86/100. Ve gusta? Lo beccate anche qui.
Sottofondo musicale consigliato: Caliban – The ocean’s heart