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Botti da orbi – Maratona Cadenhead’s

Disclaimer: i due progenitori di questo illustre sito sono fissati con l’indipendenza e l’indipendentismo delle recensioni, come se fossero dei baschi del malto. Sicché, per evitare di essere accusati di conflitto di interessi come un loro più noto conterraneo brianzolo, hanno deciso da qualche tempo di evitare giudizi su alcuni marchi, distribuiti in Italia dall’importatore con cui collaborano.
Tale lodevole altezza di spirito, però, mal si concilia con la filosofia edonistica di questa rubrica, dove in spregio a ogni cautela e politically correct si mira alla ricerca del piacere sensoriale a 360 gradi. E dunque, dato che quei marchi “off limits” spesso regalano piacere, col cavolo che qui si eviterà di berli e descriverli, che questo spazio è una Casa delle Libertà. Non vi va a genio? Chiedete al governo di fare una legge sul conflitto di interessi, se siete capaci.
Se invece vi fidate, prendete un pettorale, indossate i vostri migliori scarpini da degustazione e pronti al via: qui – complice il nostro accumulatore di bottiglie preferito, il notaio De Rosa – si parte per una maratona Cadenhead’s, il più antico imbottigliatore indipendente (toh, anche lui…) di Scozia.

Creations Blended malt 22 yo “Light fruity & syrupy” batch #1 (2019, Cadenhead’s, 45%)
Quarantadue km in nove dram non sono uno scherzo, un po’ di riscaldamento è necessario per evitare fastidiose contratture alle narici, che poi ti tocca star fermo un mese, bere solo Esta thè e fare gli impacchi di arnica al naso. Dunque per entrare in clima ecco un blended malt di 22 anni in una bottiglia obesa dall’etichetta accattivante come solo un grafico disagiato di Campbeltown potrebbe concepirla. Dentro, succo misto di alambicco da Ben Nevis, Blair Athol e Tomintoul.
Al naso – per rimanere in clima sportivo – accanto a una sontuosa frutta matura (nespola, mango, pesca e cedro maturo), c’è una dimensione mentolata che ricorda l’olio canforato dei massaggi: ah, quanti ricordi di calcio provinciale, quante panchine al gelo, quanto fango… Tornando al bicchiere: ci sono muscoli, in questo olfatto. E anche screziature metalliche che sussurrano “Ben Nevisssssss”: a bicchiere vuoto esce un’ossidatura organica, quasi di carciofo… La terza dimensione è quella della dolcezza, fra miele d’arancio, cioccolato bianco alla frutta e un mandarino zuccherino. Un che di peonia, alla lontana. Che stavolta non ricorda niente, perché nei campi di periferia al massimo erano ortiche.
In bocca è delizioso, di una bevibilità impressionante. La frutta prende il largo, si fa macedonia. Il tocco fresco è quello delle foglie di menta. Non è esattamente setoso, ma suadente di sicuro: miele ancora, nocciola e pompelmo rosa a iosa. Legno tostato, un tocco di spezie (zenzero) e una torba che spunta senza timidezza, non dominante ma sporca e sfacciata, prolungandosi in un finale di candela spenta, agrumi, cera e un tocco salato. Ancora, versatene ancora…
Riscaldamento perfetto, ci sentiamo tonici come la Schweppes. L’unico problema è riuscire a fermarsi in tempo, che di questo è facile finirne una bottiglia prima ancora del colpo di pistola dello starter. Una soddisfazione vera. 91/100.

Glenallachie 24 yo (1992/2017, Cadenhead’s, 54,2%)
Partenza gagliarda, nel gruppone ci mettiamo a ruota di questo 24enne che promette bene. Eppure, appena ci avviciniamo, un dubbio ci coglie: non è che questo stava correndo a prendere il tram e noi stiamo seguendo un intruso? No, perché il primo impatto col naso è straniante: note pungenti e fermentate, lieviti e zero legno. Ricorda quasi una grappa, ed è tutto dire. Lo smarrimento per fortuna dura poco, si torna in carreggiata con frutta secca, uva bianca e un mix curioso di bucce di frutta e il sughetto della macedonia con succo di limone. Ci può essere un naso aspro? Comunque un whisky acuminato ma anche oleoso (olio di girasole, semi di sesamo), che col tempo migliora e si concede anche qualche svolazzo floreale di erica e acqua di rose.
Certo, non abbiamo iniziato con il compagno di corse più docile, eh. Ha un’andatura tutta particolare, un palato caldo, complesso. Scatta sul versante dell’amaro erbaceo (assenzio, albedo di limone); poi allunga su una dolcezza di cereale e frutta gialla (i Cuor di mela del Mulino Bianco, per chi era così sventurato da avere questi biscotti per colazione invece di quelli buoni al cioccolato). Poi improvvisamente rallenta e si ritira a bordo pista su note di cassetti vecchi, bastoncini di liquirizia e nocciole tostate. Il finale prematuro della sua gara è piccante. Non nel senso che resta senza pantaloncini e sospensorio, ma che lascia un ricordo pulito e medio-lungo di cardamomo e spezie del legno.
Come lepre, ci aspettavamo qualcosa in più. Un atleta della sua maturità dovrebbe gestirsi meglio. Invece va a strappi e mostra soprattutto al naso alcuni tratti di adolescenza inattesi e non del tutto integrati. Corridore tutto sommato diligente, ma se vogliamo piazzarci bene al traguardo è meglio sorpassarlo e fare la nostra corsa. 83/100.

Bunnahabhain 22 yo (1994/2017, Cadenhead’s, 50,4%)
I primi 5 km sono andati, cominciamo a impostare un’andatura basata sulla piacevolezza e la scioltezza di gamba. Questo Bunna ha tutte le caratteristiche per sostenerci, ce lo aspettiamo confortevole come un paio di scarpe super-ammortizzate. E in effetti, solo annusarlo ti dà una spinta tipo polverina di Pollon. Inebriante e immediatamente marino, con una mineralità adrenalinica di gesso, stireria e lime. Acqua di mare spruzzata e un plateau di ostriche su ghiaccio e limone, ma senza le ostriche (bella fregatura se te le portano così al ristorante, ma qui l’effetto è divino). C’è anche del cedro, dell’uva spina, un po’ di pera bianca e della menta. Forse un filo di carta vecchia. Un whisky terso come un cielo limpido di gennaio.
In bocca è più dolce del previsto, la marea si ritrae e lascia spazio a vaniglia, melone, caramella al miele e limone. Restano i sali minerali, che in una maratona sono importanti. Intenso e diretto, potentemente agrumato – pompelmo e limone di Sorrento. Grafite e té verde, che detta così sembra un doping di ultima generazione. Il finale è di nuovo costiero, salatino e diretto, con cereale crudo, zenzero e tanto iodio. Marittimo, selvaggio, elegante. E improvvisamente ti sembra di correre sul bagnasciuga di Islay fra cavalli bianchi. O erano pecore? 90/100.

Bowmore 13 yo (2001/2014, Cadenhead’s, 46%)
Dai col cuore, abbiamo preso il ritmo come al sesto gin tonic ai matrimoni, quando anche i comodini cominciano a ballare. La gamba vola, è necessario idratarsi. Il Gatorade color puffo bevetelo pure voi, noi abbiamo riempito la borraccia con questo Bowmorino rinvigorente. Il quale – come tanti rimedi tonificanti – non spicca per profumi piacevoli: al naso sembra una via di mezzo fra mezcal e grappa affumicata, con ampie volute di new make. Non esattamente un complimento. Però la medicina va presa, poche storie. E da bravi bambini otteniamo la nostra ricompensa, perché pian piano escono note più isolane e interessanti: calamari alla griglia, a testimoniare una torba costiera, una dolcezza zuccherina (succo di pompelmo) e un che di erbaceo, che somiglia al pomodoro verde e al coriandolo. Acidello, affilato e nudo, ma anche un po’ scisso.
In bocca continua sul versante zuccherino (tutte energie per la nostra maratona): agave affumicata di nuovo, caramella fondente alla banana, liquirizia ripiena. Il distillato fa un passo indietro, ma l’effetto generale rimane piuttosto semplice e dolce. Limone, torba levigata e meno acre che arriva fino a un finale di canditi e zucchero su cui è caduta della cenere.
Siamo in piena trance agonistica e ci sentiamo imbattibili, per cui tiriamo giù alla svelta il beverone. Anche perché oggettivamente non c’è tanto da rimuginare su un malto piuttosto schietto al limite dell’ingenuità. Ma non lo penalizzeremo per questo: un sorso di Islay, seppur banale, è sempre meglio del Gatorade. 84/100.

Glen Scotia 27 yo (1992/2019, Cadenhead’s, 45%)
Brutta tegola, abbiamo preso una storta. E’ stato quando il percorso lambiva una rinomata trattoria: usciva un profumino di lumache alla bourguignonne, tajarin ai porcini e brasato e la nostra parte gourmand per un istante ci voleva far entrare, così il patatrac. Ci fermiamo per le cure del caso e ci danno un unguento puzzolente che pare miracoloso. E’ un Glen Scotia di 27 anni divisivo come la visione di “Hostel”: porcheria immonda o capolavoro di citazionismo? Il primo impatto è drammatico, ci viene voglia di ritirarci per sempre a giocare a tressette al bar. Sporco, grasso, olio del motore, metallo, zolfo. Un’officina andata a male dove qualcuno ha dimenticato un bilico pieno di orzo ammuffito. E delle bucce di mandarino. Quando uno vorrebbe scappare urlando, un filo di luce nel buio: note di olio d’oliva, tabacco di sigaretta. Un’umidità da Pianura Padana a novembre, c’è anche un ricordo di mostarda. E col tempo pane al burro.
La nostra storta non sembra migliorare, ma abbiamo fede nella medicina e ci spalmiamo l’unguento. Che appunto è oleosissimo anche al palato. Olii vari, dal Castrol per motori diesel all’olio di semi, fino all’olio di colza. C’è un che di stantio che tutto pervade, dalle bucce di arancia ammuffite alle foglie di insalata appassite. E qualcosa di metallico, come di verderame (il nostro hobby è leccare paioli degli anni ’60, ok?). Anche qui, a fatica si supera il muro di note off e si intravede un biscotto ai cereali, che nel finale lascia di nuovo il posto a un che di mandorla amarognola e bucce di agrume. Ammuffite, ovvio.
La storta va meglio, riprendiamo la corsa. Però la medicazione non è stata indolore: un whisky istintivo e dannatamente complicato, che può disgustare e intrigare. Le suggestioni sono stralunate, lo stile è eterodosso, la bevuta altalenante fra la repulsione e la meraviglia. Facciamo 84/100, Oscar all’originalità.

Ledaig 23 yo (1992/2016, Cadenhead’s, 55%)
Come l’emerodromo Filippide, nessuna storta e nessuna pubblicità progresso sul consumo consapevole di alcolici può fermarci. Ormai siamo nell’ultimo terzo di gara e abbiamo ripreso il passo, superando gli avversari che dovevano andare a casa dalla moglie. E’ il momento di tirare fuori gli attributi, magari senza rimediare una denuncia per atti osceni. E’ il momento di un Ledaig, distilleria di carattere che regala sempre emozioni forti. Questo 23 anni non fa eccezione, anche se l’inizio del naso è un po’ chiuso. La sporcizia del Glen Scotia si sente ancora, ma qui oltre a quella nota di ingranaggi sporchi e olio esausto c’è di più. Per esempio una dimensione erbacea, che va dal té dimenticato per ore in infusione alla caramella Ricola, passando dalla resina di pino. La torba c’è, ma non in grande quantità, più come un filo di fumo di sauna. In bocca cambia faccia. Anzi, facce: perché prende la doppia via della dolcezza (caramella alla mela, latte condensato e cedrata, a testimoniare anche un’acidità frizzantina) e della torba bruciata: tizzoni ardenti, marshmallow grigliato. Qualcosa di eccentrico come peperone verde e un po’ di alcol. E tanto pepe nero macinato che – insieme a una grande dolcezza e alla fuliggine – arriva fino al finale.
Bella botta, ci ha dato motivazioni per lo sprint finale. Volevamo spigoli per pungolarci e li abbiamo avuti. Non il più equilibrato dei whisky, ma se uno corre 42 km non è che spicchi per morigeratezza di comportamenti, caso mai vuole mettersi alla prova. 86/100.

Glen Garioch 25 yo (1991/2017, Cadenhead’s, 47%)
Sono gli ultimi, estenuanti chilometri. Quelli in cui vedi i santi anche se per una volta non li hai nominati invano, quelli in cui invidi gli atleti che hanno scelto il tiro al piattello. Il sudore è ovunque, se fosse distillabile potresti pareggiare la produzione della nuova Macallan: single sweat whisky suona bene. E così, ormai quasi in apnea, mentre le gambe avanzano per inerzia il cervello riceve meno ossigeno e fugge in mondi paralleli. Dove dal rubinetto sgorga Glen Garioch 25 anni. Che bello sarebbe fare le abluzioni così, con un whisky fine e delicato, quasi floreale. Magari timido, ma elegante, con note di clorofilla e melone bianco. E anche con una dolcezza che tutto accarezza: pan di spagna, zucchero a velo, biscotti aromatizzati al limone e miele di tiglio. Sciacquarsi il viso con questo tripudio di sensazioni misurate, cesellate, e uscire di casa profumando di chicco d’orzo, rabarbaro e chips di mela.
Evidentemente in crisi mistica da sforzo, stiamo delirando. E ci immaginiamo un whisky dal grado perfetto, setoso, con un mouthfeel sontuoso. Frutta vivace al palato (mela, limone e ananas), una frizzantezza insperata da caramella gommosa allo zenzero e poi – ma siamo ancora vivi? – pasticceria! Crema cotta, gelato al bacio bianco, burro caldo. Un ultimo sforzo di immaginazione e di gamba: ecco note di granella di frutta secca, un’idea di torba polverosa e quei semi di finocchio glassati che chiudono i pasti al ristorante indiano. Il finale è più simile al naso, succoso, elegante, olio essenziale di cedro.
Siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta, vediamo il traguardo. Non eravamo dati per favoriti, come questo whisky. Eppure abbiamo puntato su saggezza e misura ed eccoci in fondo. Noi e questo GG di eccellente stile che ci proietta verso lo sprint conclusivo con il suo 89/100.

Highland Park 28 yo (1989/2017, Cadenhead’s, 45,8%)
Con l’acido lattico che ci cola dagli occhi e il viso pallido che al confronto John Wayne era un pellerossa, tagliamo il traguardo. Non è stato semplice assaggiare 42 km di whisky, ma gli obiettivi si raggiungono solo così: senza fretta e senza sosta. E ora ci godiamo la premiazione: un Parco delle Terre Alte più vecchio di Kurt Cobain e Janis Joplin quando morirono. Sarà che a fine gara siamo accaldati, ma sembra un soffio di limone e aria marina fresca. La frutta è velatamente esotica, fra banana verde e ananas. Poi sul podio sale l’anima isolana: candela spenta e una torba molto discreta, discosta. Miele di erica e un tocco erbaceo (sedano o levistico). Ancora limone, che lo fa andare via dritto come un fuso.
Lo champagne se lo spruzzeranno addosso Hamilton e i piloti della F1, noi preferiamo questo nettare pulitissimo e dalla dolcezza dinamica. Cosa vuol dire? Che la nota di pasticcino alla crema pasticcera e ananas e il cedro non deragliano mai verso un senso di eccessiva pesantezza. La patina di cera di candela è di una eleganza rara e prende il posto della marinità, che si ritrae. Meno salato ed erbaceo, tende al secco verso il finale, dove la crema al limone, la mineralità e un tocco di anice si prolungano senza sosta.
Il Nirvana dopo la fatica e le emozioni. Un whisky affilato eppure godurioso, che interpreta senza fanatismi lo spirito delle Orcadi, terra di asperità ma anche di dolci colline. Filippide è arrivato, la guerra è finita 91/100.

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