Reduce da Limburg, il nostro Jacopo ha portato a casa qualche trofeo, che pian piano andremo recensendo, se – ci permettete – la smette di menarsela e si degna di portare le sue terga e i suoi samples nelle nostre riunioni d’alcolismo a scopo recensivo. Uno di questi trofei è una bottiglia semplicemente bellissima, e che evoca sogni di mezza estate: Glenlossie (una delle nostre distillerie feticcio) 1972 (l’anno magico del whisky scozzese, dicono quelli che credono nei vintage) 20 anni (che bello era avere vent’anni!) imbottigliato da Sestante (dobbiamo spiegare? non dobbiamo). Selezionato da Ernesto Mainardi, invetrato dietro a una delle sue bellissime etichette ‘a scudo’, portato al Festival da Diego Sandrin e sottratto alle grinfie dei crucchi proprio dal prode Jacopo, che ha pagato caro il terzo di bottiglia rimasto ma insomma, non vorrete mica giudicarlo?
N: eccoci qui, dove volevamo essere. La patina di vecchio, di carta antica, di cera d’api, di favo di miele, di mobili antichi impolverati, c’è tutta, avvolge la realtà come un manto trasparente che suggella la fine di tutto. E invece, è solo l’inizio: una frutta gialla intensa e calda, forse processata, si fa largo tra le cinquecentine e gli incunaboli, con fiammate eleganti di albicocca, di arancia (sempre più verso la scorza, gli olii essenziali d’agrume). Poi una crema paradossale, perché è una crema ‘secca’ – anzi sì, è proprio quella crema pasticciera lasciata lì, che si raggruma, e che unisce morbidezza ad asperità quasi minerali. Perché la mineralità c’è, ed è un misto di oleosità agrumata appunto e ciottolo, quasi, una pietra focaia esausta da giorni. Incantevole, fragile ed elegante come solo ciò che è vecchio sa essere.
P: non illudiamoci, questo palato purtroppo è un pallido simulacro del whisky che fu – era imbottigliato a 40%, la bottiglia era aperta e ok, la forza si è persa. Ma non si pensi a un’acqua sporca, tutt’altro: anche se sarà boh, a 30%?, resta pulito, piacevole, dominato da quella coltre di antico, ancora cera e carta, ancora favo, miele, acqua e zucchero di canna (ok, forse questa è esattamente la definizione di “acqua sporca”) che lascia in controluce sfumature di frutta gialla e di dolciumi, di pasticceria mediorientale (ancora miele, sì, e quella pasta sfoglia sottile), di frutta secca e di agrumi spremuti e anche canditi. A grado pieno, questa doveva essere una cosa grande, grandissima, che solo Mainardi, forse, ha potuto sperimentare. Beato lui.
F: inaspettatamente lungo, maltoso, con quel misto di muesli e frutta essiccata che vediamo nei buffet delle colazioni degli alberghi e non prendiamo, perché c’è il bacon e insomma, vuoi mettere il grasso di maiale? Qui il bacon non c’è ma c’è ancora una insistente cera d’api, e pure l’uvetta. Intenso e persistente, oltre le attese.
Dobbiamo essere razionali o emozionali? La razionalità dice “naso spettacolare, palato quasi perduto, certo non corrispondente a quello che un bevitore avrebbe trovato nel bicchiere girando il tappo a vite di questa bottiglia nel 1992, finale lungo e sorprendente”. Ma l’emozione, amici, ci parla di autunni passati e ideali, ci sussurra la vetusta maestà di regni decadenti, ci avvolge in un abbraccio che non vorremmo finisse mai, ci porta a vagolare per i corridoi della Biblioteca Imperiale di Costantinopoli, mentre fuori divampa l’assedio guidato da Bonifacio del Monferrato e la sola lettura degli ultimi esemplari dei trattati di Agatone e degli appunti di Temistio sulla fisica di Aristotele può distrarre dalla fine imminente e inesorabile. E perdonateci, ma se bevessimo whisky per esaltare la nostra parte razionale, saremmo proprio dei coglioni. Un tributo alla caducità dell’essere umano: 91/100.
Sottofondo musicale consigliato: Bob Dylan – Tombstone Blues (dall’ultimo capolavoro Shadow Kingdom)
