Pochi giorni fa due di noi hanno passato un sontuoso martedì pomeriggio nella sede milanese di Dream Whisky, l’etichetta indipendente di Marco Maltagliati e Federico Mazzieri che già ci ha fatto sognare con la serie Metamorfosi l’anno scorso e con i primi tre Dream l’anno prima. Ma quando lavorate, direte voi, e non possiamo darvi del tutto torto. Non avremo però l’indecenza di dirvi che questo è lavoro, ringraziateci.
Siamo stati da MF (come Milano Finanza) per fare la conoscenza dei loro ultimi due imbottigliamenti, due single cask della serie American Oak. Non due Scotch invecchiati in botti di quercia americana, ma proprio due American whiskey, selezionati in collaborazione con il Jerry Thomas Project, lo speakeasy più amato della Capitale, una realtà con una cultura sui distillati da fare invidia a chiunque. Non facciamo troppo spoiler, ma il progetto è da paura: antiche ricette pre-proibizionismo, ricerca su cereali inusuali, invecchiamenti di un certo spessore. Il risultato sono questi due gioiellini qui sotto. Ah, per le etichette si torna sugli ormai familiari temi naturalistici di piante e animaletti, ma declinati in salsa americana: uno scoiattolo e una ghianda. Amici cervo, foca, tasso e uccellagione tutta, ora non siete più soli.
Maryland rye “L’ospite” (2016/2021, Dream whisky, 50,3%)
La Death’s door spirits è una distilleria nata negli anni Duemila nel Wisconsin, dall’idea di due intrippati di storia del whiskey, Brian Ellison e Jason Veal. La missione era ricostruire le ricette e le soluzioni tecniche dei distillati dei primi coloni del XVIII secolo, per ridar vita a stili scomparsi. Tra questi, spicca il Baltimore Rye, cioè un rye “imbastardito” che mischia l’influenza degli immigrati tedeschi e degli irlandesi. I tedeschi utilizzavano quasi solo segale e imbottigliavano il loro Monongahela rye (dal fiume omonimo che scorre nella zona) bianco, senza invecchiamento. Gli immigrati delle isole britanniche – che a Baltimora diventarono maggioranza – introdussero l’uso dei legni e aggiunsero al mash mais e orzo maltato. Era nato il Baltimore Rye, fine della pippa storica.
Più concretamente, qui il mash è costituito al 70% da segale, al 20% da mais e al 10% da orzo maltato e la fermentazione dura una settimana. Viene distillato in alambicchi a colonna Carl e invecchia 5 anni in botti nuove carbonizzate a livello Alligator. Il colore è un’ambra scura. Ah, in etichetta c’è lo scoiattolo.
N: a Baltimora devono farlo strano. L’ingresso del naso è qualcosa di unico, con zenzero fresco e – lo abbiamo sentito tutti, non eravamo noi ubriachi – sedano! Insomma, si parte con un naso croccante, con del cedro anche. Ma la cosa bella è che evolve subito in una frutta più dolce, tra la pera rossa e qualcosa che ricorda a qualcuno le banane gommose e a qualcun altro le Big Babol panna e fragola. Sotto questi lampi di frutta, rimane solido e possente il cereale, molto evidente e umido. E le note tipiche di segale? Ci sono, ma la piccantezza rimane un passo indietro. Spunta col tempo la violetta. P: qui invece sembra il regno della menta in ogni sua forma. Dei visionari poliglotti che molto hanno viaggiato ravvisano del té alla menta egiziano. Noi che ci fermiamo alla bisseria Grandi Biramidi d’Ejitt’ invece ci fermiamo alla menta normale e al caraway. Che è l’anello di congiunzione tra la spezia piccante e quella balsamica. C’è del legno di pino, resinoso, ma non dimentichiamo il burro e la marmellata di pesca, che ci sussurrano nell’orecchio “brioche”. Le pastiglie Leone alla violetta si fanno sentire sul lungo, e forse sono la cosa che ci emoziona meno in questo palato cangiante e piacevole, molto eterodosso. F: avvolgente e dolce, con liquirizia, caramello bruciato (charred oak…) e menta di nuovo.
Il rye non è mai stato in cima ai nostri sogni erotico-spiritosi. Ahinoi siamo gente delicatina, poco avvezza alle rudi asperità del distillato dei pionieri. E perciò questo rye in particolare ci piace molto: per l’evoluzione continua, per la molteplicità di suggestioni e per quella texture che somiglia più a un abbraccio che a un uppercut. Siamo il frutto decadente di una società che non sa più soffrire, preferiamo gli agi alle privazioni: 87/100.
Brewer malt “Il frutto” (2016/2021, Dream whisky, 54,8%)
Stessa storia, stesso posto, stessa distilleria. Stessa gente che vien dentro, consuma e va via. Max Pezzali ci fa da nume tutelare per la seconda creazione della Death’s door distillery, che se possibile è ancor più particolare della prima. Qui il mash è composto all’80% da orzo maltato, con un 20% di grano duro rosso invernale, e la distillazione avviene sia in pot still sia in colonna. Due particolarità: il lievito è un cultivar particolare, cioè il lievito da Champagne; la maturazione, poi, al contrario della quasi totalità dei whiskey americani, avviene in botti usate. Nella fattispecie, ex Bourbon barrels di Heaven Hill. Non si tratta di un grado pieno, è stato abbassato di circa 8% e la diluizione è durata quasi un mese. Il colore è un rame scuro e in etichetta fa bella mostra di sé una ghianda.
N: Houston (che non è in Maryland e neppure in Wisconsin), abbiamo un problema sensoriale: cos’è questa vinosità accentuata, vivace e acida, che sentiamo? Ci sono note di smalto e vernice, sherry e uva rossa con i graspi. Qualcuno sostiene sia il lievito Champagne. Nessuno ha la verità in tasca, ma l’effetto è impattante. E si porta dietro un corteo lungo di mora, datteri e cioccolato che tanto ricorda i single malt europei in quercia europea. Occorre un po’ di tempo per far sì che l’anima del nuovo continente emerga, sotto forma di caramella Elah alla liquirizia e noci pecan. Il legno è elegante, ricorda i legnetti di incenso con un filo di fumo. P: anche in questo caso il barile alza la voce al palato, ma sempre mantenendo quei toni di incenso di chiesa. A cui si aggiunge però una decisa mole di resina, che rende il profilo molto carico e molto aromatico. Non è un legno classico, ma un iper-legno, con note floreali e anche di legno bruciato, di sauna quasi. Accanto, c’è spazio per un’arancia (sia buccia sia caramellata) e una mou deliziosa, che col passare dei minuti fa venire l’acquolina. Chiodi di garofano a manciate. Decisamente il legno qui è protagonista, ma il distillato lo regge bene. F: continua a cambiare e alla mou subentra un senso di caramella alle erbe di montagna (la ruta?). Il legno dà un tocco amaro. Il chinotto impera.
Non capita spesso di non avere alcun termine di paragone per un whisky. Si rimane spiazzati, come quando si sente parlare una lingua sconosciuta. Anche qui l’impressione è di un distillato incredibilmente vivo, che si dimena tra olfatto e palato e non sta fermo un attimo. Ci sono le note legnose, quelle balsamiche, quelle caramellate. C’è un corpo eccellente e una potenza di fuoco notevole, ma mai prepotente. Voi che ci conoscete sapete che in questi duetti cerchiamo sempre di non essere democristiani e di dare una scala anche minima di preferenza, ma qui – per motivi fra loro diversi – siamo costretti a replicarci: 87/100 anche qui. Due esperimenti che hanno due enormi pregi: l’originalità e la grande facilità di beva, che è ben altro dalla banalità. E non è poco.
Sottofondo musicale consigliato: Pennywise – American dream